Questa è una filastrocca che abbiamo sempre sentito. L’avrà inventata sicuramente qualcuno che conosceva molto bene le caratteristiche di tutto il circondario.


Da ru Maestr'(o) — Giuseppe Cicerone (1919 – 2002)
Filastrocca dei Paesi

Pesa vento di Collepietro
molto ventilato
Ben parlare di Navelli  non sappiamo se perché parlano il dialetto stretto o se parlano veramente “bene”
Bocca scarciata della Civitaè vero!!! Molti citaresi hanno la bocca grande – oppure: a Civita c’era il ghetto ebraico e una via “Giudea” scritta in modo sbagliato
Coccia di porco di         Caporciano
è il simbolo del loro stemma
Craparo di                      Bominaco
pascolavano capre
Magna surgi di San Pio
probabilmente c’erano molti topi
Nobili di Tussio
credo sia dovuto allo stile di vita di tutta la popolazione
Giudei di Prata
forse traditori oppure: c’è il riferimento a Ponzio Pilato
Cinciari di San Nicandro
forse poveri!!!
Zingari di San Demetrio
fortemente commercianti, zingareschi
Culo incretato di Castelnuovocostruito e circondato da terre cretose, i contadini quando si sedevano a terra si alzavano sempre con i pantaloni imbiancati dalla creta
Pecorari di                       Barisciano 
Pastori
Miserabili di Poggionon ne abbiamo idea

Abbiamo avuto notizia della stessa filastocca con difformità di nomignoli per alcuni Paesi:

Crullari di Barisciano
perché costruivano con la paglia le “crulle”, a forme tonde, su cui le donne ponevano le conche piene di acqua
Cavasurgi di San Pio
perché, avendo molto zafferano, andavano a caccia di topi per paura che ne distruggessero i bulbi
Scarpe rotte di Prata
?
Lupinari di San Nicandrocoltivavano lupini


Recitata da “miuccio” – Gino Ranalli
dedicata al “tribunale” bisnonno di “susino” – Luciano Moscardelli (figlio di Alessio)

O Tribunale pessimo o tribunale triste
Tu ti “rubast i moccoli”* 
Per ungere  le scarpe
Fin nel sepolcro a Cristo.
Poi ti ponesti al pubblico
Ad ungere con essi
Le tue scarpacce sudice
Per palesar gli eccessi.
Non ti vergogni o perfido
Di porre cose tali
Cose che non farebbero
Neppur degli animali.
Meriteresti un fulmine
Mandato dall’Eterno
Ti riducesse in polvere
E a “giri” nell’inferno. **

*andava a rubare la cera in chiesa                                                    
**Conoscevano Dante e la “divina commedia”

IL FUOCO DI SAN GIOVANNI


Il 24 giugno si celebra la nascita di San Giovanni Battista.
Il Battista è l’unico Santo di cui la Chiesa celebra anche la nascita perché egli segna il confine fra l’antica alleanza e il tempo nuovo che inizia con Gesù.
A Tussio, come nei paesi vicini, la vigilia, ovvero la sera del 23, si accendevano piccoli fuochi sui quali, tutti, uomini, donne e bambini, saltavano.
Il rito dell’accensione dei fuochi ha diversi significati. Su internet si trovano varie versioni.Ma … il salto?
Perché si saltava il fuoco? Mi hanno raccontato che tutti, uomini, donne, giovani e vecchi, saltavano. I più vecchi e le più vecchie che non potevano spiccare un salto passavano su di esso la gamba.
Quindi il rito, sicuramente propiziatorio, era sentito. Ma, nessuno ha saputo darmi un qualche significato specifico.
Solo una filastrocca che le donne  cantavano  mentre eseguivano il salto:San Giuann’ San Giuann’
salvam’(e) le zamp’(e)
prima a ‘mmy
y ‘ppo’ a mamma.San Giovanni San Giovanni
salvami le gambe
prima a me
e poi a mamma.Sul sito lagosereno.org ho trovato una interpretazione in cui si dice: Legate alle feste e ai riti del fuoco vi sono alcune prove da superare. Le più comuni e tradizionali sono la pirobazia (camminare su di un letto di carboni ardenti oppure di sassi precedentemente surriscaldati) e il salto del falò.
Il salto delle fiamme, a coppie o da soli, è una prova di purificazione e coraggio che veniva superata tradizionalmente in tutte le campagne d’Italia la notte di S. Giovanni.
Ma perché dovremmo saltare le fiamme?, potremmo chiederci meravigliati alla maniera di Voltaire. Perché è tanta salute, risponderebbe un coro di voci, dal Friuli alla Sardegna, dalla  Scandinavia alla Grecia.
Le nostre nonne sapevano leggere i salti sopra le pire.

Nella categoria dei salti individuali, l’alpigiano ‘single’ (ricordiamo che questa nota è stata presa da un sito del nord Italia) saltava tra le fiamme del 24 giugno per guarire il mal di schiena, per migliorare la vista e per tonificare la sua virilità. E più alto era il salto, più sarebbero cresciuti la canapa e il lino.
La ragazza, invece, lo faceva tre volte, avanti e indietro, per trovare marito. Se già sposata, ma sterile, per avere bambini.Il salto del falò in coppia, tenendosi per mano, tra innamorati, è più divertente. Ma bisogna conoscerne le regole, i significati, le conseguenze.
Così si tramanda:
1) chi dei due stacca prima, cioè più lontano dal tappeto di braci, porterà i pantaloni’ in casa.
2) Chi per primo toccherà terra dopo le fiamme, per primo lascerà il mondo.
3) Salto simultaneo, vita coniugale felice.
4) Salto lungo, lungo dolore.
5) Gonna incendiata ragazza castigata…
e via di questo passo a seconda delle tradizioni.Ma, nella nostra tradizione si dice anche che: ti sei fatto  “San Giovanni”, ovvero sei diventato: compare.
Da un articolo sulla Nuova Sardegna apprendiamo:“Il comparatico
La notte della vigilia, l’amicizia si suggellava divenendo compari di San Giovanni, e da quel momento ci si dava del “voi” per tutta la vita. Il rito si compiva recitando all’ unisono auguri e auspici nel momento del salto del fuoco, ripetuto tre volte. A significare come, così come si supera l’ostacolo rappresentato dal fuoco, insieme si superano le difficoltà e le asperità della vita.”Daiana Legge ha inviato queste foto “scattate” il 23 giugno 1987, in cui si vede il “fuoco di San Giovanni” acceso da Antonio Cicerone e Adolfino Santogrossi.

Antonio e Adolfino


EPSON MFP image

Perché questi due “vecchi” avrebbero acceso il fuoco?
Spettatori, anzi spettatrici, erano soprattutto le nipoti di Antonio, Daiana, Doriana e una loro cuginetta.
Nella foto si esprime il concetto di: “tramandare la tradizione”.
Per carità, ogni cosa, ogni bene materiale e immateriale, costruito e voluto dall’ uomo, ha un ciclo di vita: nascita, crescita e morte.
Qualche volta, sono sicuro, siamo noi stessi ad accorciare questo ciclo di vita.La notte di San Giovanni c’era, anzi qualcuno lo fa ancora, la tradizione di mettere “la barchetta di San Giovanni”.
Si prende una bottiglia slargata nel fondo; la si riempie di acqua; in essa si versa il bianco dell’uovo (fresco e non passato in frigorifero); si pone la bottiglia fuori dalla finestra, o su un balcone, comunque alla “serena” e, la mattina del 24 giugno, e solo in quella notte, si verifica la magia o, per chi vuole crederci, il miracolo, della trasformazione del bianco d’uovo in una “barchetta”.
Io, da piccolo, trovai un veliero che durò diversi giorni.


POETI E POESIE

Vanda Santogrossi in Casilio è nata a Tussio e risiede all’Aquila. Ha insegnato alla scuola elementare con dedizione e passione. Tra i vari diplomi conseguiti, è anche in possesso di quello relativo agli “Insegnamenti artistici”.
Ha contribuito con versi in vernacolo a rivalutare gli ambienti rurali, descrivendo arnesi e attrezzi usati in passato, riunendo le sue composizioni in opuscoli dattiloscritti quali: “momenti d’infanzia”, “il focolare”, “la casa”, “la cantina”, “la rimessa”.
Per lo stesso scopo, ha riunito e trascritto in libretti “proverbi paesani” in dialetto e tradotti in lingua.
Ha pubblicato “colori del tempo”, ed. Ape, Terni 1999; “l’incanto del creato” ed. Cannarsa, Vasto 2000; “sinfonia dell’anima”, ed. Passaporto 2001; “il sapore dei ricordi” ed. Ape 2002; “in un cielo lontano” ed. Helicon, Arezzo 2002.
È accademica de “Gli Etruschi”; dei “ Micenei”; della “Città di Roma”; del “Neapolis”; della “Valentiniana” di Terni; nonché Gran Dama dell’Arte dell’Accademia Gentilizia di “Il Marzocco” e, infine, Senatrice dell’Accademia dei “Micenei”. A cura dell’associazione degli “Amici dell’Umbria” di Terni, le sono stati conferiti i premi “Umbria d’Oro” 1998, “Autore dell’anno” 2001 e dal Comitato della premiazione di un messaggio d’amore di Terni il Premio Internazionale “San Valentino d’Oro” 2001.
Ha partecipato a rassegne di poesie dialettali e a concorsi letterari conseguendo ambiti premi, lusinghieri successi di pubblico e di critica.
È presente in molte antologie e della sua attività letteraria si interessano critici e commentatori.
Di Vanda, abbiamo scelto alcune poesie in lingua e in dialetto (aquilano) che parlano di persone, luoghi e ricordi legati a Tussio.

4 dicembre 2018

AL CARO ZIO ADOLFO

Zì Dolfino ti chiamavo
quand’ero piccolina
e nel mio cuore
tale sei restato
or che “piccola” sono diventata.
Ricordo quei tuoi occhi luminosi
che sempre accennavano
a un sorriso
risento quella voce delicata
quando parlavi al mio cuore
di bambina
mentre giocavo coi bimbi
in compagnia
alla “Madonna in Gloria”
per la via.
Dolce la tua carezza m’è rimasta
come la tua voce da “tenore”
quando ti dilettavi al clarinetto
sul terrazzino là tra i tetti.
Ti amo ancora come allora
mio zietto
e fino a quando respiro avrò
nel mio petto stanco
con orgoglio ti porterò.

CARO COMPAGNO GIOVANNINO

Te ne sei andato
di San Luigi il giorno
amico mio
a raggiungere
gli antenati tuoi
e i cari genitori
orgogliosi del tuo operato
e di ciò che al mondo
hai lasciato.
Virtù lavoro e amore
son la scia del tuo cammino
o caro compagno Giovannino !
Che bei ricordi
della nostra infanzia !
Che gioia rimembrar
quei giorni nello studio
assai voluti
che in te lasciato han
quel dono del saper
di agir e del comportamento
che nella vita han fatto
forbito nel pensiero e nel parlar.
Resta di te sano ricordo
nella progenie
ed in chi
vicin t’è stato
e profondo dolore
nel cuor dei cari tuoi
e indelebile in quello
dell’amata Lina.

1 settembre 2018

PRIMO ANNIVERSARIO
DELLA DIPARTITA DI ENNIO

La mia strada è
triste e solitaria
pur se ricolma dell’amor
dei nostri cari.
Quanto mi manchi
Ennio!
Quanto ti penso!
ti sento a me vicino
ti vedo lì seduto
odo il tuo richiamo
perfino la tua voce
un mattino m’ha destata.
Ancor veglio
accanto al tuo respiro
e rivedo il movimento
delle tue stanche labbra
accennare
a quell’ultimo bacio
alla mia mano del cuore
che accarezzava
il tuo pallido viso.
Oh mia dolce metà.
Quanto mi manchi!

TUSSIO

Paese dei miei trisavoli e antenati
quanti anni d’allora son passati!
Quanti uomini in te procreati
nello scorrer dei secoli ci hai donati!

Quante menti scelte e grandi eroi
da questa terra son venuti fuori!
Terra di forti e di emigranti,
quanti ne hai vinto di briganti

e quante delle tue genti importanti
han fatto parlar di sé tutte quanti
al di là del mare, in terre assai lontane
rese fertili da braccia tussiane!

Tu sei la culla di giudici e avvocati
di maestri, professori e letterati
di suore, sacerdoti e di prelati
nonché di cappuccini veri frati.

Tu ci hai donato ricchi di casate
e quante virtù nei cuor ci sono state
per quelle strade allora dirupate
che or son belle, pulite e allisciate!

Quanta bontà nel cuor degli abitanti
ha risolto casi doloranti
e roccia d’esempio e di valori tanti
a gente di “fuori” ti sei dimostrato.

Amato sarai tu paese mio
da color che vita ebbero da te
e nessuno mai nel cuore ti darà l’addio
portandoti per sempre via con sé

pur se il destino lo terrà lontano.
E gioirà nel ricordare i tuoi sapori
tra pietre antiche e laboriose mani
nobili pensieri e profumati odori.

A GIOVANNI LEONARDIS

Pure tu te ne scì vvolatu via da cquistu munnu
che no’ è statu ‘n virità pe’ tti tandu rutunnu,
s’è sfiziatu a datte certe bbone cose,
ma quanne te n’ha leate pe’ fatti suffrì!
Mo’ te rrepusi e rriviti cquiji jorni ‘n terra
che scì passati da cquannu ci scì natu
e cquiji amici bboni che vecinu te so’ stati
e che tand’amore singeru t’hannu ‘atu.
Jì, ji so’ vvisti de commoese mò che ji scì lassati
e dice de ti le cose cchiù bbelle che se ponno dì
de scenza e de virtù, d’amore, d’umiltà, e rrispettu
e de tuttu cquelu bbene c’a j’atri tu scì fattu.
Pien’era la cchiesa pe’ j’urdimu salutu
d’ “amici”, “conoscendi”, “collechi” e “autorità”
che j’impegnu tè ajiu laoru hannu vulutu rrecordà
e pe’ dì a ttandi che scì ‘nu “Personaggiu” da no’ potè scordà
pe’ cquelo che scì fattu ajiu “Spitale de L’Aquila e Tor Vergata”
‘nziem’a j’ “Illustre Luminare” che tandu t’ha stimatu
e che, co’ commozziò a ttutti ji presendi t’ha rrecordatu.
Mo’ j’amore tè e l’onestà, a mojie, fiji e neputi scì lassatu
che pe’ tand’anni co’ ju surrisu tè hannu passatu.
Mo’ ajiu paese de lla nostra ‘nfanzia scì rretornatu,
a “Tusc” tè, che scì veramende amatu,
tra cquela ggende che tandu t’ha onoratu

A VINCENZU CICERONE

Vincenzu c’ha lassatu!
Pure issu se n’è jitu a ‘n atru munnu
addò ci stà pace, amore e ssirinità
che ecco no’ nze troa mango a volè pacà.
Fijiu de conoscendi e bbona ggende
‘nu professoru bbravu e ttand’amatu daji studendi,
guita sicura e rrifirimendu da no’ perde
che, però, da cquacche tembu issu avea lassati
pecchè ju distinu avea ggià dicisu de portajiu via
pure daji famijiari e daji paesani che ji voleanu bbene.
Come issu pochi se ne troanu e ce ne stannu:
era ‘n amicu singeru, pricisu e lleale
‘na perzona co’ ‘nu “carisma” sé unicu
che subbetu te ju sindii vecinu pe’ aiutatte
‘n cquele piccule cose che te serveeno ‘n prescia
spece quannu era Sinnacu dejiu paese.
Mo, quasci tutta Tusciu se ju piagne e pure jì
pe’ virtù e sindimendu e pe’ la ggindilezza
che issu me fecette ‘n ”cquela festa”, quannu
j’ “arbiru genealoggicu” de lla casata mè, me recalette

‘N ADDIU A CLORINDA

E’ ‘nu periudu che ju doloru
è sembre prondu
pe’ colpì ju core te’ e de chi te sta’ vecinu
pecchè se porta via le perzone tandu care
pe’ cunuscenza e parendela e te despiace assa’.
E cuscì se n’è jita pure la bbella Clorinda
moje dejiu cugginu cchiù piccirijiu de patrimu
‘na femmona de valuri e de virtù
‘na moje sverda savia e combrenziva
co’ cquijiu sorrisu sembre ‘mmocca
e co’ cquela parlandina che te se rrecombrea
e ju dialettu tostu dejiu paese mè
che quannu la sendeo tandu me piacea.
‘Na matre attend’ e primurosa co’ ji ddu’ fiji
che mo’ so’ ommeni bbravi pure issi
co’ ‘n testa tutti ji cunziji ch’essa ji ha ‘atu
e nejiu core co’ cquiji sani pringipi d’onestà.
Nej’ anni verdi era combagna cchiu cica de mì
e pe’ distinu prima se n’è tenuta jì.
– ‘N terra nu’ te rrecordemo co’ tand’affettu Clorì!

JU TARRAMUTU

Era parecchiu che la terra da sottu tremea
ma gnisciunu seriamende ju tarramutu pijiea
e issu ‘ngarratu ‘gni ttandu se preparea
e pe’ fassi sindì cchiù fortu rrendronea.
Chiggunu s’er’accortu che cqueccosa no’ quatrea
sott’ alla terra che fitta no’ ‘nze stea
a cquela notte che ‘ddu ‘ote forte se sendette
‘n piazza, o co’ le machine, la ggende se ne jette
e a lle 3.32 da ‘na morte certa se scambette.
Cquiji che endru casa a ddurmì rremanetteru
a lla scossa ròssa momendi de terroru issi vivetteru
e ju core dajiu pettu cquasci ji scette
quannu sendetteru sbatte mobbili e cassitti
e frantumà picchieri, suprammobbili e tazzette.
Vendi seconti e passa cquijiu finimunnu durette
e de lamendi, urla e porvere l’aria rrembiette
e pallazzi cò studendi e atra ggende se gnottette
e quannu de sconbijià cose e case issu fernette
monumendi e cchiese e tuttu crivellatu c’apparette
e senz’ abbitazziò tutta la popolazziò se rretroette.

BBITTINA E SIMMONE

Appareano ddù perzone “strani” e fiji no’ ne teneanu
e pe’ cquessu rresocondi a gnisciunu issi deanu.
Se icea che no’ era ‘na coppia tandu “gginuina”
e ccuscì se combortea la domeneca mmatina.
S’abbieanu a lla messa ajiu primu toccu sonatu
fermennose a lla sajita co’ ju primu ‘uncondratu,
po’, fecenno co’ j’atri la seconna e terza fermata
e se sendea rendonà de BBittina vocion’e rrisata.
Sceanu da lle stalli j’ommeni ‘ndaffarati
sajieanu de fretta ji quatrani rrivistiti
passeanu affilate nonn’e mamme co’ le fijie,
ma cquiji ddu’ ‘mpalati se feceanu le chiacchierate
e arriveano a lla Messa ch’era già comenzata.
All’iscita, la “canzona” di BBittina era la sstessa
e no’ ji potii sfujì, pecchè co’ ‘na manu te tire’a essa:
troppe cose co’ j’occhi e ‘occa tenea di’ e la tinii sindì.
Una salutea e n’atra n’acchiappea e lo “cucinatu” addorea
e ‘ntandu che rrecalea e ciarlea, Simmone zittu se ne jea…
Quannu BBittina co’ lla ‘occa’assutta e lengua “‘mpastata”
rrendrea, troea ju “piattu” rifriddu e lo “magnà” ‘ncollatu.

MARIUCCIA “SCOPITTU”

Era ‘na femmonuccia bbrunetta, piccirella piccirella
e la chiameano ccuscì, come ju patre, da “cicarella”
pecché no’era crisciuta pe’ddevendà ‘na scopa ‘rossa
ma era rremasa “cica cica” ‘nzomma ‘nu “scopittu”.
Era furbetta e ‘n ome cchiù ròssu se pijiette
e da issi ‘na “scerpa” cchiù arda nascette:
‘na femmona e tre maschi essa “sfornette”
e de allevaji co’ju maritu ciabattinu, n’nze ‘mpaurette.
Ddu’fiji, l’arte dejiu patre, se ‘mparettero
e po’all’estero pe’sta mejiu se ne jettero
unu a fasse frate all’Aquila se ne venette
e la femmona, co’essa vetova, zitella rremanette.
“Scopittu” della situazzio’tandu si “rammarichette”
pecché a lla fijia bbruttarella pure ju “gozzu” ji venette
e jornu dopo jornu, essa a vetella, s’accorette
e quannu jie pe’la via tene’addossu tana malingunia.
Arriette però ju jornu che ju frate “messa candette”
e ‘nu fijiu sposatu ddu’neputi ji recalette
e co’issi anni bbeji zi’ Mariuccia ce passette
finu a quanno “stracca” ‘sta terra lassette.

ADILINA “LA CALLARARA”

Era la fijia di Sandarella “la callarara”
e tenea la ‘occa a “risa” a ttutte l’ora
‘icea nu’saccu ‘e fessarie da mmatin’a ssera
e rracconde’aji quatrani ji raccundi che sapea
ch’avea sinditi o che ‘nvendea de sana pianda
pecchè de fantasia ne tenea propitu tanda.
Ji rremane’a ssindilla a occhi e‘occ’aperta
quannu le sere d’immernu se stea ‘nzieme
pe’ sindì cchiù callu ‘ndorn’ajiu caminu
addò ‘gnunu portea ‘nu ciocchittu ‘e mmalla
pe rrescallà “tandi” co’‘ nu focu solu ‘ntemb’e guerra
e po’ reportasse ‘nu scallittu pe’ scalla ju lettu
co’ ‘cquela bracia roscia ch’allumea la via
quannu lo friddu o la “serena” te jelea le schina.
Come se “sendeeno” li racconti se’ n’dempo ‘e Natale
quanno fecea parlà ju Santu Bbambinejiu
quannu ji cuce’ addosso nu’ ‘vistitu bbejiu
quannu ji preparea la pajia dendr’ ajiu canestrejiu
co’ cquela fandasia che te conquistea
e ju Natale cchiù fandasticu sembre t’ apparea!

ZI’ ANDONIO “JU SACRISTANU”

Zì Andoniu era ‘nu bejiu vicchiarejiu
tuttu pulitu, arzijiu e scherzarejiu.
era ziemu e sacristanu dejiu paese mé
e ‘gni jornu sonea pe’la messa le cambane
o co’ji quatrani la domeneca mmatina
o pe’ji morti a lla benedizione vespertina.
Era ardu, snejiu e co ‘na bbona pidina
e accombagnea ju prete a ‘gni ppostu
se co’cquijiu cappuccittu niru ‘n cim’a’na canna
rammurea sopr’aju aldare le cannel’appicciate
pe’no’pistà ju papiru cunzumatu
o quannu ‘nnazzechea ju ‘ngenzieru
o sonea ju cambanejiu prima, o a mezza messa.
Sapea fa’‘nu sonu bbejiu lungo a ffesta
quannu se “spesolea” co’la fun’e lle cambane
e le fecea sindì a lle parti cchiù londane.
Da tandu tembu issu mo’le sona ‘n celu
pe’fa’codendi tutti ji “angili quatrani”.

ANNINETTA “PICQUELA”

Cuscì la chiameanu tutti, allora, ajiu paese
pe’ distincquela da cquell’atre Anne tutte rosse,
vivea co’nonnittu e co’ la matre, a ll’America stea ju patre.
Rremase sola racazzetta, pecché la matre se morette
e le zie preoccupate aspettetteru la sendenza dejiu patre
che dicise ju colleggiu co’ le monache fidate.
‘Nu par’e anni ci rremase e portette la divisa:
era bbella la ‘unnella tutta pieche gricio perla
ju cappottu tuttu blu pe’ du’ anni e po’ no’ cchiù.
A lla casa rretornata, zurlea ji fiji tutta la jornata,
aiutea la cuggina a fa’ tutte le feccenne
ji piacea cchiù ajiu paese che in città co’ l’orfanelle.
Ju tembu passea, ma pocu crescea, ‘na bamboletta essa parea
co’ ji capiji tutti a piechette e ‘nu core ròssu ‘n pettu,
‘na bella signurina se fecette
e “Minicucciu” se ne ‘nnamorette
filice co’ l’amiche si confidette, ju cunzijiu de una ji piacette
e ju quatranu se’ “Fiammetta” ju nomette, po’ se sposette.
‘Nu fijiu bbejiu ddopu ji nascette
e chiamajiu Ggianfrancu ji suggerette,
co’ tuttu ju core essa j’amette e pe’ issu l’imbossibile fecette.
Era ‘n’amica e no’ ci stà cchiù,
è ijita a rrevetè Fiammetta “Locosù”.

MICCHELE “MISCIONU”

Era uno de cquiji che teneano mulu e vacche
e che areano la terra e laoreano co’ passiò
pe’ la famijia ròssa e pe’ ttanda popolazziò.
Rremase vetovo co’ tre fiji, ma se rresposette
e nascetteru ‘nu quatranittu e ttande quatranette:
a bboni cundi, tutti, erenu ‘na bbella bbanda.
Co’ quasci ‘na tozzina de fiji, Micchele
se tenea da da fà, pure se cquiji ròssi ju potean’aiutà.
Issu era ju capu e ddea ju bbonu esembiu,
ma Vincenzu, j’ome chiù ròssu, laorea come ‘n orsu.
Co’ j’occhi de jattu e co’ lo caminà se’ quattu quattu
“Miscionu” se fecea tutti j’affari zittu zittu,
no’potea esse de tanda cumbagnia, ma salutea pe’la via.
De pizze de casciu ajiu casceru, de stanghe de saucicce
e de latte da venne la cucinetta se’ era sembre piena,
ma a calata de sole a tutti se spezzea la schina.
Com’era bbejiu piinu a magnà la sera a cena cquijiu taulinu!
Appiano appiano però, po’ la casa se spojiette
pecchè chi se sposette e chi a fasse monaca se ne jette.

PAMPANUCCIO E POLLETTA

Ereno ddu’ frateji co’ ji nomi ‘nu pocu curiositti
e solu Pampanuccio se sposette la fijia ‘e “Papittu”.
Polletta, poeretta, pur’essa se ‘nnamorette,
ma a lle nozze desiderate mai essa c’arriette.
Era ‘na bbella moretta, ma cica e assa’ macretta
e ji piacea ‘nu saccu attaccasse a lla “fiaschetta”
tandu che ‘na sera co’ ‘nu pee se sbajette
e da ‘nu finestronu tra la pajia se rretroette
dendr’a ‘nu cortilu co’ ‘nu portonu chiusu a locchettu.
Ju sposo che la cerchette, ajiu posto no’ la troette
e la mmatin’appressu mezza jelata se rrevejiette,
cuscì ‘n’atra ‘ote cchiù accorta essa se stette.
Tra porte, fenestr’e taulini, ju tembu “Panfilo” passea
e ‘ndandu che piallea a Polletta issu penzea,
d’accasalla se cretea, ma cquijiu jornu mai venea,
finu a quannu s’ammalette e ajiu Creatore se ne jette.
Cuscì fenette la storia d’amore d’Apolonnia detta Polletta
che ‘na notte tra la pajia essa passette
rrescallata dajiu focu ‘e lla “fiaschetta”,
pe’ cquij’occhui de jatta ‘nnamorata cotta.

SABBATINU “JU CERASCIARU”

Era jurdimu deji tre mariti de lla scherzosa “Picetta”
e ‘gni mattina co’ nu’ cistinu e ‘na picquela ‘ccetta
jea a lla vigna de’ lla via dejiu “ciardinejiu”
spece quannu ea tembu de cerasce “fatte”
pe’ rrempijiu d’acquarole, a lla fine dejiu laoro fattu.
Ji arbiriji de cerasce ji tenea pure apee a lle fratte
e cquele sè, acquose, ereno le prime a maturasse,
ereno bbone pire se no’ ereno tandu rosc’e polpose
e ass’ saporite pecchè co’ ji core te veneeno ‘ate.
Se rrempiea pure ju cojiu de ciarrocche e ceppe rotte
e arreven’accuscì, a calata de sole, tuttu ‘ncerasciatu
pe’ fa’ condendi ji nonnitti e ji tandi quatranitti
che a ll’«ara» steano a ccorre o a jocà a “zzollitti”
co’ ttandi bbottuni troati e “struccati” pure aji cauzoni.
Era ‘na festa vetejiu rarrià e ttande scommesse pote’ fa’
e a cchi ‘na ciarrocchetta cchiù bella sepotea pijià.
Era ‘nu spassu, nu clawnu, come ‘icea sembre issu
e ‘gni quatranittu quannu ju vetea ji correa appressu
e pure se ste’a ppiagne s’azzittea de bottu, e…:
– Cerascia-à, ‘nu ramittu rusciu quannu me ju rreportu!?!

LA BBISCOTTA

Avea pijiatu ju “nomignulu” Bbiscotta daju soceru
che a lla domanna –che te stà a mmagnà –
rresponnea –ju bbiscottu- ajiu postu de llo pa’.
Essa tenea ‘na bella casa nova co’ ‘na cucinetta,
che a ddì la verità, la stea sembre a rrezzelà.
Tenea ‘na saletta addò fecea ‘ndrà chi la je’a ttroà
e aji vetri le tende laorate co’ la pieca sbusciata.
‘Ncim’a ttuttu ‘na terrazza d’addò se potea vete la fonde
e addò mette’a secc’ajiu sole le “scerte” de mazzocche
pe’ la pulenda quannu venea l’immernu trist’e friddu.
Tanda ggende quela “rascia” la vetea e j’occhi d’arangionu
se rrempiea quannu da lla fonde ce se rreotea.
Deji quattro fiji maschi che la Bbiscotta avea avutu,
unu solu, j’era rremasu propetu vecinu
e ‘n atru era devendatu “fra Cilistinu”.
Se mette’a lle spalle ‘na mandella fatt’aj’uncinettu
pe’ pijà ‘nnanze casa lo friscu a lla piazzetta
co’ la “minoma” se – Congetta – detta la “Postina”
e quannu sscea de casa Sabbetta “ju tisoru” pe’ la via
che se ferme’a ddì: – a nnenna sé, eh che “bbuscia”!?!-

ANNINA “ LA FINANZA ”

Ju portamendu se’ era chiuttostu signurile
e la faccia lisci’angora ‘nu perfett’ovale
co’ttandi capiiji p’omamentu “raccoti” alla “nucca”
co’ ‘nu par’e trecce arruticchiate a “tuppu”.
No’ nge la “rrefecea”, era cuscì, co cquela testa ritta
e co’cquelo caminà che te sapea ‘nacandà.
Era mojie de unu ch’era statu a lla Finanza
ma che ggià stea ‘npenziò’ pe’ ffenit’ordinanza.
J’anni se’ manc’eranu pochi: er’anziana,
era vecina de casa e me volea bben’assa’
forze cchiù deji fiji se’ ch’eranu ‘rossi
e quannu me sendeo chiamà: – Vandì…ì…ììì…-
dalla finestra se’ o dalla port’aperta’aju bballarinu,
sapeo che la pulenda era ggià cott’e bbella ‘ncasciata
sopr’a lla taoletta addò se mettea pe’ magnalla
tutti quandi ‘nzieme assettati a ggirutunnu.
Ji “frizzeo” a lla casa e troeo ju postu preparatu
e ‘ngominceo lestu lestu a tajià e ‘nforchettà
tra cquijiu fum’e addoru profumatu, fin’a quannu
‘nu bbonu pezzu de taoletta “aveo pulitu”.

JI OTTAND’ANNI ME’

E’ veru che pure ji’ so’ arriata a ottand’anni
e nu’ me ji sendo pe’ ggnende su lle spalli.
Issi so’ passati cuscì lestu lestu
che no’ me ne so’ cquasci cquasci avvista!
A di’ la virità ji volesse rrefiutà: no’ nzo’ ji me’
no’ ji voless’accettà pe’ ju mutivu che tu po’ vetè,
ma l’anacrafe me ji sbatte aju muccu
e ji’ ‘nziem’a lla torta me ji leccu.
Tandi che ccunusciu me j’anno rrecordati
e j’aucuri pe’ issi condendi m’hanno ‘ati,
co’ ffiji e nneputi ji semo festeggiati
e pure d’oltre oceanu m’hannu telefonatu.
J’amici deju core m’hannu tand’onorata
co’ ‘na sorbresa che no’ me s’arrri’aspettata
e me so’ sindita aj’ottand’anni obblicata,
a rreconosceji propetu tutti me so’ piecata
e a rrencrazzia’ ju tempo ggià passatu
che vita pe’ rrecordameji m’ha donatu.
Cuscì, co Toni, ju cugginu tandu risspettatu
e co’ ji “amici dejiu core”, so bbrindatu.

SESSAND’ANNI ‘NZIEME

Come viti sessand’anni so’ propitu passati
e ji e tì no’nge ne semo cquasci cquasci “addunati”.
Co’ ju tembu bejiu e bruttu ji jiorni so’ vvolati
e ggioj’e ddoluri issi c’hanno portatu.
E’ veru, ji ardi e bbassi, no’ nze neca, ci so’ sstati
ma nu’ ji semo tutti a ‘nu fasciu rabbricati,
co’ nu’ sorriso a nu’ fussu ji semo ruzzecati
e ‘nnanzi cchiù forti sembre semo jiti.
J’orgoju nostru ju semo commannatu
e j’amor’e llo bbene a nu’ no’ng’è mancatu.
Ji tre bbravi fiji che so’ nati c’hanno “raddicriatu”
e bbeji e assa’ sverdi neputi c’hanno recalatu
pe’ ju nostru confortu ‘n tutte le jornate.
E po’, tenemo pure tre fior de proneputi
che so ji ramosceji di acquisti arbiri ‘nvecchiati
ma che, temè, angora no’nze so’ siccati.
Nu’ji ‘nnacquemo ‘gni jornu ‘sti tronchi vicchiareji
co’ llo bene che volemo a tutti cquandi
e no’ nge pesa de fa’ pure cquacche sacrificiu
fin’a quannu ju “Celu” de vive a ‘nu ci ‘ice.

MARIOZZA “ LA LOIA ”
‘ Rossa, co’ na’ vest’accutulata lungh’e llarga
caminea pe’ la via cquela che se chiamea Maria
e che ttutti ji ‘jceano Mariozza pe’ lla “stazza”,
ma pure “ la Loia ” pecchè l’origgine sé era de Roiu,
e se sa che: stroppia oji e stroppia domà, co’ ju tembu,
a pocu a pocu, “da Roiu”, se cagnette co’ “ la Loia ”.
Fecea la cauzetta co’ ju mazzarejiu e ju filu ‘n cojiu
‘ndramende che ji scorrea da lla jammotta
attaccata co’ ‘na ‘rossa spilla ‘n cenda aju zinale
ch’era j’urtimu “finimentu” sopr’a lla vesta
addo’mettea lo ranoturco pe’ le cajine
quannu le chiamea co’ ju nome a un’a una
o fecea: pio-o pio-o-o, pi-i-i pi-i-i, pi-i.i.i, e le vitii vinì.
A ‘ote mettea la manu a ‘na bbuscia de lla vesta
e s’aine’a rretroà, sottu, ‘na saccoccia longa
d’addò caccea ‘na “melongella” che se magnea
– pe’ rrenfonnese la ‘occa o ju “papiru” – essa ‘jcea
doppu ch’avea “sbiascicatu” o tropp’assà parlatu
co’ Ndonina, la vecina de casa e de candina,
o quannu se “rammarichea” d’essa sola, poverina.

‘NDONINA ” LA PICETTA “

Era ‘na femmenona arta, secca e stretta
e aiju paese la chiameano ” la Picetta “
pecchè quannu parlea, essa “allucchea”
come cquijiu ‘ccejiu che nu’ chiamemo “pica”
ma che se chiama “gazza” pe’ linqua “antica”.
Era ‘na sveldona co’ ‘nu passo lungu
e ji piacea de fa’ co’ j’atri “comitella”
pe’ fassi ‘gni ttandu cquela risatella
che da lontano sembre se rreconoscea
fatta da sijiuzzu, strillitti a garganella
che ‘nzera ma’ sindita come cquela.
Que’ ‘ote ji piacea de sscherzà e dice fesserie
e pprima de tutte quande de mette’a rrie
‘ndremende che sferruzzea cauzette o petalini
assettata co’ l’atr’anziane aji sscalini
e s’assuchea le lacrime co’ ju pizzu deju fazzulettu
che ji rrepennea da lla coccia ‘n pettu.
Era ‘nu tipu allecru pe’ ‘rossi e quatranitti
che ji feceano cerchiu assettati e ritti
quannu pe’ pazzià se fecea cquiji bballitti.

SABBATINU “COCCIABBIANCA”

Ji tenea tutti cquiji capiji bbianghi e forti
e ju soprannome che j’avea lassatu ju patre mortu.
Jiea sembre a testa ritta pe’ mistrà ji mustaccitti
e tuttu lo rrestu come ‘nu “fusu” prond’a ll’usu.
S’era sposatu Ggenoveffa ch’era fijia de lla “Pizzuta”
furastiera e co ‘lla ‘occa no’ de certu muta.
Sott’aju sole che cocea, ‘na pajietta se mettea
quannu ju “solecu” fecea co’ Moretta che tirea.
Quannu a ccasa rretornea, a lla “squarchiola” se la ggirea,
era de bbona cumbagnia e la parola no’ji manchea
discorrea de tande cose e cque ‘ote ce la rrefecea
e lo “sapè fa sé” aji atri dimostrea.
Le ggende, “Mastru Camillu” ju chiamea, pecchè
sottu a n’arcu patronale, na stanzetta issu tenea
e da falegname a “tembu perzo” ci lavorea
e a cquacche seggia e taolinu jiu pee ruttu raccongea.
E ‘ndramende che chioi e colla issu addoprea
cquacche amicu a parlà a lla scaletta se mettea
picchieri e buttijia co’ llo vinu bbono allora caccea
e: – a lla salute Mastru Cami…i…i…!! – e se bbeea.

PIETTA: CENDEUNO….E CCHIU’

Pure ji cendeuno so’ ssuperato
e ji cquistu munno no’ jiu’ so’ lassatu
ci stenco co’ lle raiche abbarbicata
e no’ mollo de certo ‘sta pijiata.
Me sendo come ‘na citola coccolata
e da tutti ji paesani ‘nnuminata
come ‘na cosa rara che no’ va’ lassata
e ji, no’ vojio fà gniscunu sconsolatu.
Ji so’ ttandu bbona, ma cocciuta
e rremanu angor’a cquesta vita
e po’…vajiu a rraccondà se “ come me jita”
quannu ju ggirutunnu so’ rreccomenzatu.
Volesse rremanè pe’ ttandu angora
ma chi la cunusce cquela “tale ora”
pe’ ddi a cquela strana…signora
– no’ e’ cquisto ju momendu…statte fore?!!!-
Ji tenco duru e pe’ mo’ so’ ssicura
che j’occhi me so’ prondi a ll’avvendura,
e voju che pe’ moltu angora dura…
de potè rrispirà cquest’aria pura.

VINCENZU “DE CROCE”

Vincenzu “De Croce” era ‘n ome de pace
co’ ‘nu pare de bbaffi e ttandi capiji.
Era rossu e robbusto e spirea fitucia
era riccu d’idee e te dea cunziji.
Quannu passea pe’ ji’a lla “terra piana”
co’ cquele vacche co’ j’aratru ‘n cojiu
se recongolea co’ ttando orcojiu
pecchè ereno belle che feceenu meravijia.
E quannu vennegnea pe’ cquela via
cquiji canestri d’uva bbianga e nera
t’offrea de core pe’ ffattela magnà
e ‘nu raspu te ju pijii pe’ rencrazià.
Era ‘n ome pure de curtura
avuta p’esperienza e pe’ nnatura,
s’endennea de besti’e de cambagna
e d’arbiri de pianura e de mondagna.
Tenea ‘na forza e sape’addopralla
e mandenea ju “stannardu” co’ ‘na spalla
a lla festa quando se jea aji “scindireji”
pe’ rraunì tre paesi e ttutti ji “confrateji”.

“JU ‘NCANITU”

Era chiamato ccuscì pe’ ju carettere se’
pecchè sembre co’ alteriggia issu parlea
e ttandu spessu co’ tutti bbaccajjiea
pe’ ‘na sscemenza che ji capitea.
Tenea ‘nu mulu e co’ issu raggionea
pecchè, pe fortuna, no’ ji responnea
ju trattea bbonu e sembre ju strijjiea
e co’ na coperta a quatri ju coprea.
Schiocchea ju staffilu e ju mulu correa
quannu aju carrittu j’attacchea,
se ju tenea da condu e ju ‘nfiocchettea
quannu ‘n città chiggunu accompagnea.
Era ‘nu “personaggiu” deju paese
e se fecea rrespettà pe’ le pretese,
co’ ji quatrani no’ fecea presa
e passaji ‘nnanzi era ‘na vera ‘mpresa.
Tenea ‘na fijia propitu tandu bbella
e pe’ issu era ‘nu fior’a ll’occhiella,
ma ju distinu ‘nu bruttu scherzu ji ristipette
e pe’ ju dispiacere “ju ‘ncanitu” s’ammutolette.

JU GGICANDE

Ju patre era ardu, rittu, filatu
e la mamma era ‘na femmenona bbene formata,
ma issu era natu ccuscì piccirijiu
che no’nzera fattu rossu
mangu quannu era crisciutu.
Era rremasto com’ardezza ‘nu quatranu
e tutti ju chiameeno “ju ggicande”
pe’ rrefrecaijiu e pe’ contraddizio’
e issu se ‘ncazzea de sanda raggiò.
De volondà e de forza ne tenea tanda
e volev’esse trattatu come ‘n ome
e jie’a llaorà co tutti j’atri,
ma…pe’ arriaji a camminà tenea corre.
Ju manicu de lla zappa era cchiù ròssu
e pe’ secà nu troncu se ju trascineenu,
ma era “spassusu” e sembre ju chiameenu.
Era ‘nu “risinditu” e sverd’assà
e la mosca ‘nnanz’aju nasu no’nze fecea passà,
‘na femmenona cchiù arda se rescett’a sposà
e po’ se la poetette pure ‘n Canadà.

JU GIAPPONU

Ettorucciu, de fisicu fortu e bbono piazzatu,
bbravu lavoratoru conzitiratu,
daju nonnu ju soprennome “giapponu” avea ‘reditatu.
De vigne, uva e vvinu issu s’endennea
e llo mostu co ‘mmaestria preparea
pe’ ffa vinì lo vino bbonu quanno spinnolea
e profumate “vocalette” a ttavola mettea,
quanno de Pasqua ju salame se magnea,
pecchè issu pe’ ttande case pure le saucicce,
ji presutti e ttutti ji ‘nzaccati preparea.
Sapea “laorà ju porcu” cuscì bbonu e saporitu
che quanno “era ora” tenea ju j’om’occupato
pecchè ‘gnuno aju paese s’era co ‘ttembu “prenotatu”.
Sapea passà e pulì lo ‘ranu co’ju crevejiu
e tandi ju chiameeno pecchè tenea cerevejiu.
E ccome caccea ‘na forz’a cquele vracce!
E ccome sapea ggirà cquijiu ross’ “aggeggiu”
che fecea fà a llo ‘ranu ju palleggiu!
E ccome la ‘oce sé tonea se quacche quatranu
pè proà ju crevejiu, lo ‘ranu ‘nderra “caputurzea”!

JU SCODATU

Cuscì venea nomatu e ju motivu forze s’è capitu!
Co’lla porta sembr’aperta ju Scodatu lavorea
tande scarpe racconcea, resolea rrechioea
portea sembre la parnanzetta co’ pure ‘na saccoccetta
addo’ mettea ‘na spazzoletta tanti spachi e ju fazzolettu.
Era ‘n anticu ciabbattinu che bbevea tandu ‘inu
co’ju nasu sembre rosciu sopr’aji bbaffi a peluscio.
Jssu passea le jiornate a ddà tande martellate,
a candà e a fasse fischiate e a “nannà” ju vicinatu
co’quela canzonetta che ccuscì venea detta:
– bbatti bbatti ciabattinu sola dura e cuoio finu…
E quannu isso candea aju fiatu forza ji dea
e de bbottu la “lendea” se chiccuno ju chiamea.
La “scarumaglia” deji quatrani che da scola scea
la parola – ‘ndocc ‘ndocc… a jussu ji strillea
e ju Scodatu “stuzzicatu” ju mateju appressu ji tirea,
a lla piazzetta de lla Madonna ‘ngloria ji sparpajiea
e ‘ngazzatu currenno “stramazzea” e “spamanzea”,
ma sott’aji baffi pure jssu ritea,
e ju jornu appressu pe rrefallo aspettea.

ALBERTU LEONARDISE

Cchiù che ‘nu ferraru era ‘n artiggianu raffinatu
pecchè laorea lo ferro co’ arte e co’ passiò
tandu che da lle mani sé ssceano confezziò
de fojie e ffiori, de rose, de farfalle e de bottò
che po’ montea a rringhiere, canceji e portò.
Fecea ji “arnesi” pe’ ‘uarnì le cchiese:
ji cannelieri, ji lampatari e ccose varie;
fecette pure ju leggiu a lla chiesa deju paese
e la “croce” co’ ju nome a lla nonnetta me.
Tenea ‘na bella mojie che Ddiu se “richiamette”
e a campà tre fiji “cichi” issu se rretroette,
ma furbo e svertu, d’animo no’nze perdette
e ‘na via cchiu mejiu prestu se cerchette.
Pochi anni “fore” a llaorà passette
‘ndramende che ji fiji a lla nonna ji lassette,
po’ rretornatu, ‘n città se trasferette
e ji fiji a stutià tutti ji mettette
e… “patre de j’anestesistu” devendette.
Doppu lo ferru pe dilettu rrepijette
Fino a quannu a “rretroà” la mojie nze ne jette.

MENELIK

Era ju patre de’ Pietta e de Rolandu
de Sabbatinu, d’Attiliu e d’Andonio “Miscittu”
e ppure de Vingenzu, cittadinu,
ch’a Rroma se ne stea ad abbità
co’ mojie e fijia, ju laoru se’, a ffa’.
Menelik era ‘n ome ass’à ‘mportande
pe’ ju popolo che vive a cquiji paraggi,
era d’aspettu bbejiu e co’ ji bbaffi
e sservea “lindo e pintu” ji cliendi
a lla botteca che ste’a ccapu ajiu paese.
Era statu a ll’Arma deji carrabbinieri
e rittu caminea cuscì ‘mpettitu
che ji tinii portà sembre rispettu
pure se ‘nu core d’oru tene’ajiu pettu
quanno aji quatrani attaccati a lle ‘unnelle
recalea caramelle: arancini e limoncelle.
Carmine de nome se chiamea
ma la ggende “Menelik” ju nomea
pe’ cquij’aspettu da Rre e cumandande
che mo’ se vete da lla fot’appiccata’a lla parete.

ACHILLE “JU FERRARU”

Era ‘nu bbej’ome Achille “ju ferraru”
e trovanne unu come issu era raru
pe’ ju laoro che fecea e pe’ come se combortea.
Era bbravu e pe’ tuttu ju jornu
fecea rrendronà cquijiu martejiu
che servea ju più riccu e ju poerejiu.
Ferrea pure muli, asini e cavajji
e se “steano fitti” co issu tandu bejji.
Fecea croci pe’ chi jiele cerchea
e piechea ju ferru arrovendatu rusciu
co’ cquella ncutine e co’ ju martejiu
che ji’so’vistu tande ‘ote a lla botteca.
‘Na ote devendette pure “potestà” dejiu paese
e ji me ju rrecordo co’ cquiji stivaluni
aj’occhi sacomatu, che a nnu’ quatrani
ce fecea rremanè quasci senza fiatu.
E’ statu bbonu e ‘na perzona rrespettata,
e jitu a ll’esteru e po’ è arretornatu
ha avuto cinque fiji e po’ neputi
c’hanno fattu onore a issu e aiju paese.

CEND’ANNI DE PIETTA

Pietta de Meneliku angora ce sstà
e ha fattu ju combleannu quacche sittimana fa.
E’ arzilla, vispa e co’lla mende chiara
e ji’me la rrecordo ggiovinotta
quannu che ‘ote servea arrete ajiu bbangò
se ju patre, soprannominatu “Meneliku”
sste’a ffa che atra feccenn’a lla bbotteca.
“Bbona e cara” ma come ‘nu carabinieru
tra cquiji taoli de candina
tenea “a bbada” chi jochea e bbeea lo ‘inu.
A ‘ote te se “rrecombrea” co’ ‘nu sorrisu
che ji fecea angora cchiù bbejiu cquijiu visu.
E’ rremasa pe’ sembre “signurina”
a volè bbene aji neputi sé
ha ‘atu tuttu a cchi ji sste’a ‘ndornu
e no’l’hann’abbandonata mangu ‘nu jornu.
E’ stata festeggiat’aji otto de settempre
daji parendi sé e da tuttu ju paese
co”na targa e ‘narberu ‘npiazza “a rricordu”
cuscì gnisciuno “pe lungu tembu” se la scorda.

ODDONU

Oddonu no’ era de Tusciu, ma come se llo fosse
pecchè da Ofena venea quasci tutti ji jiorni
a portà l’ojiu bbonu co’ ju mulu rossu.
No’nze ferme’a lla fonde, ma passea
pe’ ju paese e se fermea ‘nnaz’a lle case
pe’ rrempì cogn’e bbuttijie de mamm’e fijie.
E quannu pernottea, co j’amici se stea
a ffa’ na magnatella co’ttanda “zampanella”
e co ‘nu picchier’e vinu bbonu a “garganella”.
Era ‘n’ome carmu e ce se potea trattà
e ppure a ccagn’a rrobba se potea pacà
cquell’ojiu giallu-finu che scea dajiu bbidonu
furnitu de chiavetta e de stracciu pe’ pulì
la coccia che sciolea a lle mani che s’”ugnea”.
Certi quatranitti arriveano co’lla “stozzetta”
e Oddonu ch’era bbonu j’ugnea ju “occonu”.
Quanno ju mulu scalcitrea ‘gni quatranittu
s’allondanea, ma po’…eccote retornea
a ffà cerchiu e a curiosà
‘ndornu a Oddonu che devendea “papà”.

SANZONU

Rossu de statura e de bbej’aspettu
era jitu aj’esteru pè ffà furtuna,
era rrivinutu co’ ‘na bbona luna
e s’era sposatu co’ Carmela
‘na femmona bbella e furastiera.
La fortuna j’avea vulutu bbene
e ju fijiu cchiù rosso tandu ‘indilligende
se laureette co’ “pocu o gnende”
pecchè ji studi gratisi se quatagnette.
Era orgojiosu Andoniu de lla cosa
e penzette pure aj’atru fijiu senza posa
e s’acquetette solu quannu a “ll’arma” ndrette.
Perzona ‘mponend’e rrespettatu
“ji patre dejiu professoru” era chiamatu
pure se co’ j’asinijiu pe’ttandu ha laoratu.
Da bbonu osservatoru e bbravu calcolatoru
‘na vita onesta issu ha passatu
la forze sé a nnù c’ha dimostratu.
Pe’ fisicu e pe’ “atru” Sanzonu era renomatu
E ‘nu bbono rrecordu a tutti ha lassatu.

ZÌ DOLFINU

Ddù occhi vispi e bbeji pe’ nnatura
co’ ‘na ‘oce che pparea ‘n usignolu,
sonea pe’ passio’ cquijiu “clarinu”
sopr’aju tittu de lla casa a ‘n abbainu
fecea ‘nu duetto co’ Vincenzu,
ju frateju che ssonea j’organittu
e le quatrane sottu a lla piazzetta
sendeano assettate alla scaletta
la melodia de cquela voce bbella,
ch’angora me reson’endr’a lle recchie
e chi l’ha sindita no’nze la po’ sscordà
‘nziem’aji tramondi de cquiji tembi là.
Sonea ne ll’ore de festa e de reposu
quannu tenea cara “cquella ggeovinezza”
e ju core ‘nnammorato tutt’apprezza.
Sonea, Dolfinu, la domeneca mmatina
pe’ rallecra la gend’e la mamma se’ Vespina.
Orgojjiosu de lla mojjie e de ji fiji
riccu de sendimendi e teneru de core
da tutti è rrecordatu co’ ttando caloru.

LUIGGI DEJI SCARAMPINI

Ji baffi sé ereno aarrutticchiati
e le recchie bbene “scoppate”
j’occh’aperti e finu j’odoratu
che ‘no nzervea solu pe’ ssindì j’addoru
ma pe’ capì e squatrà bbonu le perzone.
No’ ji passea la “ mosca ‘nnanz’aju nasu”,
e se sapea vetè j’affari sé.
Amea ji neputi e passea ji jorni co’lle vacche
che governea co’ ttanda dedizziò e passiò.
Issu era patronu pure de ‘nu toru
j’unicu pe’ ttuttu ju d’indornu
e jiea assà fieru pe’ “lla bestia sé”
che ju trattea sembre come ‘nu rre.
‘Nu jiornu a lla fonde ju toru se ‘nfuriette
e Luiggi ‘nderra se caschette
ju toru, che la ‘oce sé, de strilla, sendette
subbeto se fermette e, arrete se scostette.
Aju fondanile a bbee se ne jiette
e da quijiu jornu cchiù pazzie no’ fecette.

ZECONE E TARALLU

Feceano parti de lla famijia de Chichittu
e de essa ereno ji frateji.
Quannu parleeno, uno zacajiea
e pe’ soprennome ju chiameano Zecone
e jj’atru che pocu tartajiea,
la ggende Tarallu ju nomea.
Scherzeanu, rieanu, ma poco cumitella feceanu.
Jeano sembre a jornata e j’orti a zappà
spece quannu la primaera se vete’arrià.
Ereno laoratori senza fine
de forza ne teneano ‘nquandità
e ttutti ji jeano a rricercà.
No’ ereno scustumati allo magnà
e nemmamgo quannu se teneano pacà
e, quannu ‘nzieme se troveano a llaorà,
era ‘nu sspassu a vetè chi cchiù potea fà.
E spece quannu ‘nu troncu teneano secà,
tra Zecò-o-o, tira là, Tarà-a-a, lassa qua,
feceano cchiù lestu le ‘raccia a ‘nnazzeccà
che le parole…a lle recchie arrià.
Era ‘nu quadrettu da no’ potè sscordà.

MARIANNA “CILLITTU”

Marianna era la mamma de Chichittu
e la lengua sé era spidita: no’ “rattenea”,
cchiù bbella d’aspettu de lla fijia se presendea,
co’ sembre ‘nu surrisu ‘nfaccia che tenea.
Ji servizzi a ll’altre ju jornu essa facea
e ‘n’anziana signora spissu pettenea
pe ‘ffaji ‘na corona de capiji
che j’incornicea ju visu tandu bbeju.
Ji portea cusci, a cquiji tembi, pure la Riggina
e Marianna era ‘na pittinatrice sopraffina
e se la “retenea” quannu passea la streccia
e po’ ju pettine strittu aji capiji lunchi
co’ cquacche coccetta d’ojiu petroju
Tenea ‘na manu lesta a ffà tuppi e trecce
e ‘ndramede lavorea dicea pure le “fregnacce”
tandu che ju soprenome de “cillittu”
se j’era co’ ju tembu quatagnatuparlenno a “doppio senzu” deju maritu,
ma…s’era “ròssu” o “cicu” nz’è capitu.

CRILLANTU

Crillantu era ju patre de Chichittu
e ju maritu de Marianna “Cillittu”
e ‘n testa ju portea ‘nu “scuffittu”
pe’ rreparasse daju vendu de lla “ruetta”
che tenea sajji quannu “jettea ju bbannu
co’lla trombetta strillennu pe’ tuttu ju paese:
– so’ arriate le fiquere a lla fonde-e-e!…!
– è arriatu ju canestraru-u! ju merciaru-u!
– currete femmone, currete a cumbrà-à
le pezze nove pe’ cucì e rrecamà-à-à!
Era ‘nu spasso a staju a ssindì
e curiusu era lo caminà sé,
pecchè ‘na zamba era cchiù ccorta
e j’inghinu fecea ‘gni vorta
che ‘nu passu issu movea
spece ‘nnabballe quannu calea.
Quannu a pparlà po’ se fermea
la zamba “a gru” quasci mettea
pe’ cquistu fattu o pecchè come ‘nu riju zumbea
tuttu ju paese Crillantu ju chiamea.


FILIPPUCCIU

‘Nu cappeju a lla squarchiola
baffi lunghi arruticchiati
poco curvu sembre cucciu
jiea pe’ vvia Filippucciu.
Arriea a cquela porta
e levea ju catenacciu
po’ rraprea lla fenestrella
p’affacciasse a rrimirà
lla quatrana che passea
ju quatranu che jochea
lla nee che fiocchea
ju cannelottu che caschea.
Cuscìscorrea lla jornata
zittu arrt’a cquela grata
nu suspiru ‘gni peata
pe’ vvetè lla donn’amata.


NATALUCCIO PIRRAZZU


Accavallu a ‘n asineju scorticatu
passea Nataluccio Pirrazzu
tuttu ‘mpretelatu,
co’ji pei che toccheno ju serciatu.
Issu jea sembre rittu ‘n fronde
pe’ lla via che porte’a lla fonde.
Jea ‘bbeverà j’asinu, se sà
e se fecea da cquiju trasportà
‘ntandu che sequit’a ffischiettà
e tutti se mett’a ssalutà.
‘Nu jiorno se sendette ‘nu fracassu
de quatranitti che ji jeno appressu:
era Carnevale e s’era mmascaratu,
de lla nonna ji mutandoni s’era ficcatu
e a lla còa de “Morellu” s’era appicciatu
fecenno scumpiscià da lle risate.

SANDARELLA …”LA CALLARARA”

De nome se chiamea Sandarella
era piccirella e ‘nu poco bbruttarella
e da quannu s’era mortu ju maritu
era essa che racconcea lle cottorelle:
racchiuea ji bbusci co’ ‘nu poco ‘e stagnu
raddrizzea ji funni ammaccati
remettea ji chioi e facea callari novi
ch’affilea pe’ lle feste ‘e Pasqua
a reluccicà sopr’aju murettu cascu
Lla piazzetta sé ‘entr’a jarchittu
era ju ritiru ‘e ji quatranitti
che jeano a vvetè ju marteju batte
da cquele raccia cort’e tandu forte.
Ju sfriguliu che fecea, t’assordea
ma lo candà sé, te cale’a ju core
pecchè parlea deju primu amore.


MENECUCCIA…”LA PELLAZZA”

Era ‘na femmona ‘nu pocu ròssa
co’ tutt’a ppostu e, ggiustu rassa.
Da joenotta era propriu tandu bbella
e aju paese no’ era remasa zitella
pure s’era de tutte la cchiù poerella.
Ji lineamendi sé ereno sembre cquiji
pure s’avea sfornatu sette fiji.
Aiute’a llaorà chi la chiamea
condenda pure se solu se magnea
bbasta che checcosa a ccasa reportea.
Ju mese ‘e maggiu sciacquea e sbianchea,
carrica l’acqua co’ lla conca ‘n testa
sensa la crolla, sopr’a lla treccia sé
pe’ ji tandi capiji bbeji che tenea.
No’ se stracchea, era ‘na pelle dura:
era de razza, ‘nnuminata “la pellazza”.


MIRENA

Era ‘nu tipu particularu
e ju picchiere tenea caru.
Quanno no’ rammediea
pe’ lle case ‘nu quartucciu
a lla candina s’empiea j’orciu.
E quanno ji fumi ji sàjieno ‘n coccia
la pijiea co’ tutti e ji sparlea ‘n faccia
‘nnanzi a lla piazzetta de lla casa sé
addò fecea “cquiji canceiji”
che ‘no ereno propetu bbeji.
Pe’ cquacche ora durea ju “paneggiricu”
e chi no’ lla conoscea, rremanea ‘salanitu
quannu pe’ vetella…
er’arriatu ‘a cim’a lla sajita.
Era ‘na macchietta, ‘nu “sciò” paesanu
che no’ s’addicea a ‘nu bbonu cristianu.
No’era ‘na cosa bbella pe’ ju poggiu.
Ma mò s’atà vetè pure de peggiu!…


VIENNA

Ju patre la volette cuscì chiamà
pecchè da “quele parti” era statu a laorà.
era ‘na quatrana tandu bella
e, come sembre se repete, era poerella.
Ji joenotti se la metteano a requardà
pecchè a vetella te fecea ‘ncandà.
Ju paese sé ji sstea strittu
e ‘n città ‘nu jornu se ne jette.
‘Na fine bbona essa no’ fecette
co’ cquiju corpu che parlea da solu
e ‘nu Dottoru fecette ‘nnammorà
tandu che aju paese la venette a recercà.
Ji gginitori da lla Puglia co’ ju “calesse”
ju venetteru a rrepijià
ma issu, Vienna no’ volette lascià
e soli a casa tenetteru rretornà.
Issu era struito e riccu,
Vienna era troppo bella…
e sequitarono d’amore lla “noella”.


SALDALEONU

Era ‘n’ome rosse e ttandu forte
co’ du’ zambe de longa falcata
era ju primu de tutti ji sscarpari
e aju rre de lla foresta paraconatu.
Lle mani sé laoreeno co’lla subbia
quanno sbuscea lla sola dura dura
pe’ ‘nfilà ju spacu co’lla pece nera
e rattoppà lle scarpe…da buttà.
Candea Saltaleonu quannu fatichea
e quanno co’lla lesina
lla sola deji tacchi rretajea.
E come cquela ‘oce rentronea
quannu ‘nu par’e sscarpe nove issu fecea
e co’ ‘na fil’e chioi renforzea!
Era bbonu e carmo co’ ttutti ji cliendi
ma se chiggunu ju fecea ‘ncazzà
ju banchittu co’lle chioette
e ju picchier’e vinu issu facea volà
e j’amici ‘ndornu se veteano scrià.


ANDONIU

No’ fu ttandu bbonu ju distinu cquiju jornu
quannu Andoniu venette aju munnu:
ji fecette ‘nu recalu pe’ ddispettu
e ‘nu par’e zampe restreppelate ji affibbiette.
Lla mamma co’ttand’amore j’accojiette
ma ‘nu malloppu de dolore tene’aju pettu.
Ji pèi pe’ nnarrete Andoniu se retroette,
rittu no’ se reggea, ma gattonea
e sott’a lle mani e lle jenocchia
‘na taoletta ce tenea quannu camminea.
Co’jatri quatranitti no’ potea jocà
e pe’ vedette sembre nnammonde tenea quardà.
Era cicu e tutti ji voleano ttantu bbene
e Caetanu, ju Commentatoru de core bbonu
a Roma ‘nu jiornu ju portette
e lla “scienza” ju miracolu compiette.
Co’ji pèi ritti a ccasa retornette,
ju core de lla mamma filice bbattette
e come tutti j’atri condendu se moette
fino a quannu ‘stu munnu no’ lascette.


NATALE…JU CANDATORE

Ggendile de modi e de fattezze
tenea ‘na voce bbella pe’ candà
e ju core te fecea rrecrià
quannu addò stea te ‘mbatti ‘a passà.
De laoru fecea lle pionce e lle tine
pe’ mettece l’uva e llo vinu
e mendre laorea issu candea
co’lla ‘oce “alda” “ròssa” o “fina”
a sseconda de come jea lla quartina.
Sonea lla tromba e ppure ju tamburru
quannu ju chiameno a lla “banda”
e ffecea sembre ju solista
co’ cquella ‘oce che sse retroea.
Era ‘na calamita pe’ tutti ji quatrani
che, a ssindiju, pijieno pose strani:
assettati pe’ tterra, alluncat’a lle scalette
pe’ bbateji lle mani.
Aju “coru de Natale” era ju meju
e, de sicuru, piacea pur’aju Bbambineju.


JU TISORU

De nome se chiamea Sabbatinu
ma lla mojie ji icea “ju tisoru”
pecchè pe’ essa valea cchiù de ll’oru.
Era minghirlinu e ji si condeano l’ossa
e aji pei portea ji scafarozzi,
tenea ‘nu par’e bbaffi arrutucchiati
e sembre ‘na ggiacchetta de villutu.
Facea ju condatinu e ju pecoraru
co”na morra ‘e pecore da guardà
quannu pe’ ji mondi jea a falle magnà.
Sonea filice pe’ lle coste Sabbatinu
ju pifferu che s’era custruitu
fin’a quannu ju celu n’z’era scuritu.
Sabbetta ‘ndandu s’ainea a llaorà
e co’ll’atre ju maritu a ddecandà,
po’ jea a rezzelà e ji tajulini a ppreparà
pe’ quannu “ju tisoru” ea rrendrà.
Se sa…lla ggende rozza arrete ju refrechea
e pe’ lla strai scherzennu – tisoru – ju chiamea
ma…essa ju tisoru sé, no’ ju tenea.


RIJU


Le zambe sé ereno fine e longhe
e fecea ‘na “falcata” tandu ròssa
co’ ‘n’”annata” che parea ‘nu zumpu
che ju rassomijiea a ‘nu veru rijiu
co’ cquela faccia e co’ cquij’occi sviji,
co’ ju muccu a pizzu e ji capiji ritti
e co’ ju corpu siccu e minghirlinu.
Era “unicu” pe’ tuttu ju paese
e se sé bbeea ‘nu picchieru ‘e vinu
la ‘oce sé a “cri cri”, rendonea loco vecinu
da fa ‘ssordì ‘nu par’recchie bbone.
No’ lla lendea mai de raccondà
le ‘mbrese sé e ji jorni de lla guerra
e de quannu ‘na “pallotta” ju sfiorette
e pe’ “crazia di Ddiu” a  lla mojie  rretornette.
Tenea ‘nu mulu che sembre cavalchea
quannu a lavoru issu se ne jiea
e, a ddì la virità…pure j’assomijiea
quannu “arrignea” e ji ‘endi mostrea.
Luiggi se chiamea quijiu: RIJIU.


LUIGGITTU “CUCURU”


Era pecoraru e portea a pasce ‘gni jornu
le pecure sé e cquele dejiu vicinu
e lle raccojiea pure pe’ ju paese
pe’ pacasse le jiornate co’ lle sspese.
Passea prestu bbussennu pe’ lle casi
e aprenno le porte de lle stalle
addò steano rechiuse lle pecor’e ll’agnelle.
Se mischiea ‘n mezzu a cquela “morra”
co’ lla mazza e co’ju can’appressu
e a ‘ote se vetea caminà co’ “quela lana”
ju cappejiu e ju manicu de ll’ombrella
tandu s’era rattrappitu co’ lla brutta vita.
Ji posti sé ereno – Campitusciu – N’cerasciu –
e ju Vuscitu, d’addò se sendea ju campanacciu
quannu rreportea ‘nu pecorijiu ‘n bracciu.
Peppe “cucurittu” era ju fiju e j’aiutea
‘nziem’a  lla mamma co’ j’occhi sciti fore
quanno a lla “mandra” porteano lle pecore
e dorme’a lla capanna co ju cane pastoru
che ji fecea la quardia a tutte l’ore.


VINCENZU DEJI SCARAMPINI

Ome de sstima, ggindil’e signurile
tenea ‘na bbella e ssaggia parlandina
e s’endendea de campagna, e de candina.
Dicea cose bbone e dea cunziji,
sott’a cquiji bbaffitti sé, de meravijia.
A ‘ote era “senzanu” e a tutti dea ‘na manu,
sapea rrecapà casi ‘mpicciati
e pportà pace tra frateji “appiccicati”,
esempio de patre co’ na’ bbella famijia
“discifirea” carte e cquestiò cumblicate.
De ‘rossi valuri e assa’ lavoratore
era ju capu de la “Congregazione”
e diriggea ji candi deji “Uffizzi” in Chiesa
aju mese de noembre pe’ ji morti
co’ cquela ‘oce bbella che tenea pe’ donu
da lla mmatina prestu fin’a jornu.
Era ju “mazziere” de ll’Associazziò de paese
e a lle festi, accand’aju “Stannardu”
co’ ju camisce bbiangu e mandillina celeste
quidea lla “Processiò” senza pretesti.


MASTRO LISCIU


Era ‘nu bbravu faligname de ‘na ote
che addoprea seca, martejiu, tenajie e cote,
che servea j’abbitandi deji dintorni
e se sendea piallà pe’ tuttu ju jornu.
Lavorea entra lla casa appen’endratu
a ‘nu stanzonu co’ ‘na fenestra sola
e j’addoru de lla colla s’une’a cquijiu deju sucu
pecchè la cucina stea subbeto appressu loco.
E ‘ndramende la mojie le faccenne fecea
issu sechea, piallea, ‘nchioea, ‘ngollea
e la famijia satolla e onesta crescea.
Era ju mastru da tutti stimatu
e ju laoro no’ j’è mmai mangatu,
pecchè ji portoncini sé ereno bbeji ‘llisciati
e “casce” e “balguni” bbene stuccati.
Le poere spalle s’ereno incurvate,
ma quande piallate aveano ‘ate!
E quandi taoli e ‘nfissi scartavetrati!
Mastru Vingenzu da anni se n’è “jitu”
Ma come “Mastru Lisciu” vene rrecordatu.


CHICHITTU


Sterina era ju nome de Chichittu
che prime de ‘ice ‘na parola
ce mettea ddù o tre “chi-chi” ‘nnanze
e cuscì, pe’ aspettà che ‘icesse checcosa
tinii tenè pacenzia e, se tinii prescia,
te ne tinii ji senza potè sapè.
Gnifilata de fisicu e co’ ppochi capiji,
tenea ‘nu tuppittu sopra’ju cereveju
e quannu caminea fecea ‘nu bballittu
e pure da cquelo se riconoscea Chichittu.
‘Nu jornu la vedette ‘nu ricco vicchittu
che vetovo era remastu, poeritto,
e pe’ tenè ‘nu pocu ‘e cumpagnia
pe’ mojie issu subbeto la cerchette.
No’nze lo fece rrepete essa ddu’ ‘ote
pe’ ccagnà aria e pe’ no’ tenè cchiu
la panza e le saccocce vote.
Cagnette paese e a tutti dispiacette
pecchè cchiù lla ‘oce no’nze sendette
e ju vicinatu quasci se la piagnette.



Da “Colori del Tempo”:

SETTEFONTI

Le sette sorelle
d’un tempo felice,
or non son più.
Sette zampilli
d’acqua leggera.
Sette sorgenti
da fonti lontane:
ognuna un mistero
si porta con sé.
Arcano tragitto
tra monti e vallate,
quanti ricordi
nella lunga estate!

Refrigerio al viandante,
ristoro al passante,
risorsa importante
per tutte le genti!
Or sembra niente,
ma allor fu vitale
l’acqua pregiata
per ciascun cascinale.
Con basto e bigonce
il trasporto era ardito
e l’umil somaro
dava aiuto gradito.
Or, come un sogno…
è tutto finito.


LE LAVANDAIE

Spuma bianca
nel fontanile azzurro
ove si rispecchia
il caldo sole.
Teste chine, intente
al risciacquo
di bianche panni
sciorinati
ai cocenti raggi
della calda estate.

Bianco bucato steso
al verde prato
e mani gonfie,
per il troppo ammollo,
accarezzavan quel candore,
perché il lavoro assai
le onorava
e, l’orgoglio, ciascuna
allor sfiorava.

E canti e stornelli
a più non posso
toglievan la malinconia
di dosso.
A sera, a lavoro finito,
con l’asciutto bucato,
ogni donna,
a casa ritornava
per ritrovar
l’amor desiderato.



da “Sinfonia dell’anima”

  ALLORA…ED OGGI

Bagagli di fortuna
sulle spalle e partenze…
Li attendevan migliori speranze.
Progetti sofferti…
illusioni in parte svanite…
Lavorar quasi da schiavi
nelle viscere della terra…
Che amaro carbone!
Quanti pensieri
in quella miniera amata
e maledetta!
Ricordi scolpiti su quel muro nero.
Eppur si tornava a riveder la luce!

Portava festa, portava gioia
quella “busta” macchiata,
tanto aspettata!

Quanto tempo è passato…!…

A nulla è valso
il giungere alla luna,
al mondo non s’è dato
un volto nuovo in ogni dove.
Molto il progresso,
tecnologia avanzata,
la mente umana poco è cambiata:
l’emigrazione è mescolanza
e quel razzismo…
pur sempre avanza!
Ancora oggi: No alle etnie.

Sembra strano?
È un paradosso…,
ma lo portiamo
sovente addosso.


QUEL GIORNO DI FESTA…

Una volta sì che dentro si sentiva
quel giorno di festa che veniva
e nel cuore ti rendeva assai giuliva,
perché la gioia, insieme ci riuniva.

Piccole e poche eran le bancarelle,
di cartapesta le colorate tamburelle,
di fogli resistenti pur le sonarelle
e, quante cianfrusaglie, erano belle!

E come allor si usava stare attenti
a non pestare il fischietto con i denti,
a rispettare il soldatino sull’attenti,
a conservar per bene i centesimi venti!

Com’era bello quel paese in festa
Per i bimbi e le lor compiute gesta,
mentre andavan con la banda in testa!
Or, di quel tempo, solo il ricordo resta!


IERI E OGGI

Cavallucci di legno su carrelli,
carretti colorati e gli asinelli,
palloni di pezza fatti a spicchi,
bambole costose per i ricchi.

Trenini di latta e di cartone,
palloncini per le bimbe buone,
vestine di broccato assai costose,
fermagli colorati per le vanitose.

Matasse di sfioccato zucchero filato
Di ugual sapore come nel passato,
zeppi di liquirizia lì posati,
noci dolci e ceci assai salati.

Le vecchie e le nuove tamburelle
E poi bambole varie assai più belle
Sostituiscon quelle di cartapesta
Che ieri…eran proprio di gran festa.

E poi, leccornie e molte caramelle
Fanno concorrenza alle limoncelle
Poste sul bancone della vecchia fiera,
amata assai, così…, com’essa era.

da “Il sapore dei ricordi”:

PANE GIALLO

Rotonde pagnotte
erano quelle
di pane giallo
fatte di farina
di granoturco,
amalgamate
con farina bianca,
per evitare
che si sgretolasse.

Umido e pesante
appariva il pane giallo
che si consumava
con verdura rifritta,
cavoli e patate,
con gherigli di noce
e la raspata.

Era il pane dei poveri
quello di polenta,
granelloso
al gusto del palato,
ma da quanti…
era amato! 
Serviva ad appagare
il morso della fame
quando ristipar si voleva
quello di grano,
ma quanti marinai
scienziati, prelati
ed uomini di Stato
esso ci ha dato!


CONNUBIO DI FARINE

La cucina
odorosa di polenta
a sera
profuma di pane
color giallo.

Mia madre
curva sulla massa
impasta
il connubio di farine
che sanno
di color di margherita
poi fa il segno di croce
e copre quel mucchietto
con bianca tela
facendo una preghiera. 

E l’indomani
il pane lievitato
cotto croccante
in mano mi vien dato
e avida ne gusto
la fragranza
sulla scaletta
ad osservare
il gioco abbandonato.

Raccolgo l’ultima
incauta briciola
e torno al girotondo.


LA SALSICCIA PAZZA (O DI COCCIA)

Di carne lessa e di scarto
essa era fatta:
di testa e di zampetti
con ventricina e un po’
di quella “buona”
perché del porco
non si butta niente.

Si capava dalle ossa
e si passava in quella
macchinetta
che faceva scricchiolare
i carnicchietti,
si amalgamava il tutto
con sale pepe aglio
e un poco di mentuccia
con peperone amaro
per dar quel senso
ancora assai più buono.

Sul pane si spalmava
ed era saporita…
da far leccar le dita
quando era finita.

Risento ancor l’odore
e quel sapore
tra le pareti ov’era
tanto amore!

da “In un cielo lontano”:

MA TU…PAPA’

Tu eri lì, appoggiato al muro,
io sulle quattro scalette
che ti guardavo…, papà.
Cinque anni appena,
ero un pulcino e non capivo…,
ma io ti amavo.
E tu pensavi…
Poi…, poi nin ti ho più visto.
Andavo a guardare
nel nascondiglio
dove mamma metteva
la tua sigaretta.
Non c’era più…
Non c’era mai!…!

E lei mi parlava di te lontano…
E ti scrivevo e ti volevo
e, quanto studiavo
per amor tuo!…!

Ma quel postino!…!
Quel tuo destino!…!
Quanto dolore
nel nostro cuore!

Ed ho studiato…
per voler tuo!

E ti ho amato
e ti ho aspettato,
nel nascondiglio
ho ancor frugato,
ma tu…mai
più sei ritornato!


QUEL MURO E’ LI’

Ed io ricordo il muro
dove quel giorno eri appoggiato
e lo rivedo
ruvido e grigio.

Tu eri lì…papà.
Il ginocchio destro piegato
il piede al muro combaciato
le mani i tasca nei pantaloni.
Eri forte, eri bello
ed io ti amavo.

Le rondini sfrecciavano nel cielo
il sole illuminava il tu bel viso,
lo sguardo fiero
toccava il mio cuore.
E ti guardavo e ti ammiravo!
Tu eri il mondo…Tu eri tutto!
Ed io sognavo…,
perché per me eri la vita.
Poi sei partito…

Quel muro è lì…
Le rondini a volare son tornate
i gerani alla finestra
molte volte son fioriti,
il vuoto nel mio cuore
da quel giorno c’è restato.

Or tu mi guardi di lassù
tra nuvole bianche e cielo blu.

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