Qui occorre la collaborazione di tutti.

Proviamo a scrivere su un pezzo di carta, che poi ci farete avere, detti popolari, proverbi, frasi ripetute e tutte le parole “strane” che usiamo (o si usavano) nel quotidiano, che vi vengono in mente.

Potrebbe venire fuori un lavoro molto … interessante


Mauro De Rubeis inaugura con questo scritto (intellettuale) la collaborazione con il rinnovato sito di Tussio.

Ci piace. Ci piace la sua sensibilità, il suo impegno, il suo esserci.

Per una più comprensibile lettura del testo riguardante l’analisi e lo studio della lingua tussiana (proprio filologica, invece), pubblichiamo il capitolo che lui scrisse per il libro “Raccontami Tussio”, 2018, peraltro ancora disponibile presso il Consiglio Pastorale della nostra Parrocchia.

Invitiamo tutti, ancora una volta, a tenere vivo questo sito con le proprie collaborazioni qualunque esse siano: scritti, cronache, racconti, foto …

da Mauro De Rubeis

Gli emozionali suoni del nostro dialetto

Nel mio contributo alla bellissima iniziativa di Toni, il libro-collage  “Raccontami Tussio”, mi ero dilettato a toccare,per ovvi limiti di impaginazione, solo alcuni aspetti del nostro dialetto essenzialmente  dal punto di vista evocativo ed emozionale dei suoni che percepisce l’ascoltatore (…dilagano esotismi: dal Cuje? (che cosa?) di sapore rumeno-mexicali, alla terribile triade amarico-araba di ‘ndeccndé, ndessndè e ‘ndellndé  ….. ridda di consonanti  dai toni balcanici negli aggettivi:strucc/stracc/rvotcat/strncnat/sdllung…etc).                                                                                                 

Ci riprovo a tediarvi ancora un po’ con la seconda puntata, anche come piccolo omaggio riempipagina al rinnovato sito di Tussio (ognuno collabora come può … J) cercando di cogliere diversi aspetti e peculiarità del “Tussiano” (senza pretese  filologiche eh!).

Le vocali, lo sappiamo, a Tussio non se la passano bene: sottintese e frammiste, normalmente esautorate, alla fine dei vocaboli spesso cruentemente eliminate (specie la O e la E) lasciando la scia di un flebile suono. Rantolo finale che in qualche modo fa intuire la presenza di una vocale e che nella scrittura “ufficiale” del dialetto viene espressa con la dieresi sulla vocale di chiusura: es. l’imperativo vattene in Tussiano è letteralmente vattn, ma il neofita non riuscirebbe a leggerlo, per cui si dovrebbe scrivere vattnë, (o più correttamentevattënë, ma poi si avvicinerebbe troppo al Partenopeo *).  

Anche le consonanti subiscono il nostro revisionismo dialettale del quale, alcune in particolare, sono autentiche vittime sacrificali.

Partiamo (ovviamente) dalla B, la meschina, sopraffatta e maramaldeggiata dalla V. Nei toponimi Barisciano e Bominaco sono Varescian e Vommenach(e). Gli oggetti di uso comune: il bacile è vaccil, la botte è vott, la bilancia è vlancia. Nei verbi: battere è vattere. Il neofita che ascoltasse prefigurerebbe un’atavica idiosincrasia tussiana per la B, alla stregua (mi perdonino i …correct) dello schiavo negro di hollywoodiana memoria che diceva “Zi badrone” , perché troppo difficile per lui articolare la lettera P praticamente assente in tutte le lingue africane. Invece no, a Tussio la B la conosciamo così bene che spesso la raddoppiamo pure: la bbanda, le bbocce, ru bbalcone, va bbona. Ma, come in tutte le storie a lieto fine, a un certo punto la maltrattata B va alla riscossa e si prende la sua rivincita sulla V e proprio quando sarebbe giusto usare la V… no …: valigia è bariscia, avviare è abbiare, avvampare è abbampare! (… sicut transit gloria mundi).

Cenerentola delle consonanti è sicuramente la G, soprattutto quando si trova all’inizio del vocabolo. Vice-sostituta preferita è la J: il gomitolo è la jammotta, la ghianda è la janna e la gatta è la jatta. Restando nel settore zootecnico anche il gallo è jall(o), il che farebbe presumere al solito neofita che ci sia una regola. Invece no perché se il gallo è jall con la J, la gallina è cajjina con la C come (Via del) Giardinello è (via ruCiardinej. E neanche  questa è la regola bis perché poi il guadagno è vadagnië, con la ricomparsa dell’onnipresente V. A tanto oltraggio la G sarebbe anche sopravvissuta, visto che ne era ancora certificata l’esistenza in vita, seppur come panchinara regolarmente sostituita, ma il Tussiano in tanti altri casi ne ha sancito la definitiva soppressione: graticola o graticcia sono raticcia, il grano è ran(ë), la grotta grande è ru rttone la piccola è la rttuccia.

Fine 2° puntata

Note

(*) Anche stavolta mi è piaciuto scrivere  i termini dialettali restando in equilibrio (o forse in bilico….) tra i dettami della fonetica e una scrittura ”libera”. Tanto della cadenza vera se non sei di Tussio non ne sarai mai padrone… caro neofita….

Mauro De Rubeis: arco di Tussio

Dal libro “Raccontami Tussio

La terra

Farraginosi tentativi di concordare le “rimpatriate” del mercoledì di un gruppo d’amici, tra sms letti troppo tardi e “telefonate non risposte” (!? è italiano??), magicamente vennero rivoluzionati con la creazione del “gruppo WhatsApp”. Metodologia moderna, contatti snelli, ognuno con tutti: si va a ruota libera (e a basso costo!!! J) Felice invenzione.
            Tutto nella norma del dilagare dei “gruppi” e dei continui cicalecci di suonerie cinguettanti? No, è un forum strano, che farebbe rizzare i capelli a qualunque decriptatore delle Forze dell’Ordine captasse le chat. Era successo che, piano piano, il testo dei  messaggi aveva tralasciato il patrio idioma  per convergere naturalmente e spontaneamente nel dialetto: Cu facét?  S vedemquistu o quiratru? Vernacolare nell’accezione di teatranti e addetti ai lavori ma, in effetti, qualcosa di diverso. Nessun purismo: le loro nonne non avrebbero parlato così! È un mix di ricordi (anche inesatti), di frasi “storiche”, di storpiature e Fusarismi ( intendendo i paleo-neo-logismi dell’inesauribile Giovanni De Santis) che WhatsApp, prima ostico e negazionista, dopo un po’ però capisce!! E finalmente cominci a scrivere “marcu…” e subito ti da “marcurdì”! Ha imparato e non occorre più cancellare e riscrivere 20 volte!
            E allora emerge la travolgente sinergia tra i due ausiliari, dove “avast” è eravate e “fussaste” è aveste. Il verbo “dovere” è sepolto:avassam e tenassam si sbarazzano brillantemente di “dovremmo”.Dilagano esotismi: dal Cuje? (che cosa?) di sapore rumeno-mexicali, alla terribile triade amarico-araba di ndeccndé, ndessndè e ndellndé! Tecnicistiche esclamazioni di stupore genuino diversificate dalla distanza dell’evento stupefacente dal soggetto stupefatto; praticamente il questo, codesto e quello di burocratichese memoria. E poi la ridda di consonanti dai toni balcanici negli aggettivi:strucc/stracc/rvotcat/strncnat/sdllung, estendibile anche a certi toponimi: Prtar/Ncarditr. Gli imperativi,compressi e taglienti: levt /movt/vattn, non c’è posto per obiezioni! Desueti attrezzi agricoli rievocano vestigia feudali:bajardo/ vavujere. Rivive la tradizione gastronomico-pastorale con l’ajino a trionfare sulle graticole (raticce) relegando l’agnello a dicitura da menù stellati. Restando nel settore si assiste al tracollo del sistema metrico-decimale nella misura prediale della coppa! E come si fa a misurare una terra (sarebbe un terreno ma si deve dire una terra…) con le coppe? Si parcellizza, premettendo alla quantificazione l’espressione di salvaguardia per l’estimatore del sarrà, secondo la scala ascendente di valori: sarrà…na coppa scarsa, vasciena coppa, m’baccia a na coppa, e a seguire poc chiù /chiù / per poi ricominciare con … scarsa na coppa e mezza, e di seguito all’infinito  E’un vocabolario ristretto, non ha un grandissimo numero di termini. I luoghi prospicenti bacini d’acqua, lacustri, fluviali o balneari che siano, si identificano col termine omnicomprensivo di Riviera. Tutto ciò che è traballante, malfunzionante o comunque non a regola d’arte si qualifica come stroppio; qualora l’oggetto fosse poi in condizioni particolarmente scadenti verrebbe declassato alla sub-categoria rtravr.
            Etc, etc etc(E sarebbe bello andare avanti a lungo ma i limiti d’impaginazione imposti da Toni sono perentori = Më piacessë continuà ma Toni ha dittë che sogna scrivë pochë*)
            È una lingua per pochi eletti: qualche centinaio di persone su questa Terra (nel senso di pianeta del sistema solare) e anche questo scritto sarà compreso pienamente da non molti.
Il resto del mondo viaggia su un altro binario ad un’altra velocità. Però oggi sono sceso da quel treno per tornare ad essere un po’ più me stesso. Domani, giovedì, dovrò risalirvi, ma vójë, pëquessintantë, è marcurdì*!!!!

*ndr. Le parole in dialetto sono state scritte in modalità semplificata ipotizzando l’uso della tastiera di un telefonino.
Le frasi asteriscate sono invece più conformi alle regole canoniche della scrittura in dialetto che ne consentono la lettura a chiunque recuperando le vocali omesse (o se vogliamo sottintese) nella consuetudine popolare.

Mauro (Eliseo) De Rubeis (L’Aquila, 1956) Residente a Francavilla al Mare (CH) Impiegato, qualche volta musicista e un po’ di più artista.

Il cognome della mazzocca

come promesso, Mauro De Rubeis ci fornisce di un “suo” scritto che, siamo sicuri, ci delizierà e ci farà discutere … godiamocelo appieno in attesa del prossimo …

Come noto e recentemente ricordato anche da Toni nel libro “Storie di Tussio” , molti furono i nostri compaesani che in altre epoche vestirono il saio e tra questi molti De Rubeis.

Anni fa, scartabellando tra vecchi tomi di “Vite dei Santi” e libricini di giaculatorie rinvenuti in una cassa, dimenticati, impolverati e un po’ ammuffiti, mi soffermai su un “quaderno” di un mio avo frate cappuccino, che asseriva di riprodurre fedelmente un manoscritto del 19° secolo lasciatogli in punto di morte da un confratello anche lui di Tussio. Il testo (Vetera Analecta*) era una raccolta di ricordi e scritti, di e su nostri compaesani dell’epoca,tra cui (grande sorpresa!) le creazioni poetiche di un tussiano vissuto tra fine ‘700  e primi ‘800, di cui mi è stato assolutamente impossibile decifrare il nome. L’Anonimo, definito come “homino più aduso a maneggiar di pidente che di penna”, si dilettava a comporre versi, in un mix di volgare e dialetto, e il buon frate aveva provveduto a metterli per iscritto come gli venivano dettati, secondo la volontà del contadino-poeta (corroborata da pie e convincenti offerte di uova e ortaggi per il convento). Con tutte le difficoltà immaginabili nel decifrare quegli arzigogoli, tra macchie di inchiostro e punteggiatura principalmente composta da cacche di mosche, cominciai a cercare di estrapolare i versi. Dopo un momento di sgomento e incertezza, realizzai che quei versi, in altra veste, li avevo in qualche modo già letti, anzi imparati a memoria!

“ Sempre a core so’ tenut Coll(e) Majur,                                                                                                         
i sta fratta che m’accappa e non m fa vedè lontan assai”
.                                                            

Ma certo era l’Infinito del Leopardi!!! Accostiamoli:                                                                                  
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte

dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”.

E poi ancora:
Ma stenn ascis(o) a ju pizz d piazza e vardenn ‘notorn, Ma sedendo e mirando
m’immaggine a quant potarria esse ‘ross ru munn dopp la fratta interminati spazi di là da quella,
i vascie vascie stu pensier m’pauriscia 
io nel pensier mi fingo, ove per poco il cor non si spaura.

Altri palesi richiami nella successiva poesiola:
Propria n’cima a stu campanil(e) D’in su la vetta della torre antica,
passarejji sol sol vì cantenn alla campagna, finant a cu nn s fa scurpassero solitario, alla campagna cantando vai finché non more il giorno
i pe la Valle i pur arru Pretar stece tutt tranquilled erra l’armonia per questa valle.

Nasce il dubbio atroce:  i versi del compaesano hanno date tra il 1798 e il 1812 mentre il Leopardi compose gli Idilli e i Canti Recanatesi tra il 1819 e il 1830! Sembra assurdo che possa esserci stato un plagio e per di più ad opera del blasonato sul “cafone”, ma proviamo ad analizzare.

 –  Notoriamente il Leopardi mal si relazionava con i genitori. Girò molto per l’Italia e più volte fu a Roma e a Napoli. Considerando le condizioni di viaggio dell’epoca e le difficoltà nel valicare d’inverno l’Appennino, oltretutto infestato da briganti e tagliagole, non è azzardato ipotizzare che da Recanati abbia potuto seguire un itinerario lungo l’Adriatico per poi rientrare verso il Tirreno sulla Tiburtina, considerata dai suoi contemporanei “una tra le più frequentate e sicure vie tra quelle interne alla penisola”. Come, cosa usuale tra i suoi pari, è certo che pernottasse nei conventi, preferiti alle malfamate taverne. A questo punto nulla esclude che si possa essere fermato a L’Aquila e che il buon frate abbia colto la straordinaria occasione di far leggere al letterato ospite i versi dell’Anonimo compaesano.

 – Le “visioni di scene di vita campestre o pastorale” del Leopardi, sempre chiuso nel suo studio (“…una prigione da cui non esce mai….“ per “.. anni di studi pazzi e disperatissimi..”) in effetti lasciano perplessi. Che ne sapeva il Leopardi di agnelli e galline, di lavoro nei campi, della festa del paese? Argomenti di vita quotidiana invece per l’Anonimo tussiano che infatti poetava così:
La citlozza rvé da n’campagna La donzelletta vien dalla campagna,
i s ne rvà a magnass caccosa fischiettenn ru zappaterra,
pensenn ca addman s rposea 
e intanto riede alla sua parca mensa,  fischiando, il zappatore, e seco pensa al dì del suo riposo.

O ancora:
Ha smiss d piov(e), ri cellitti svolazzzean i la caglina rvà nannmezz la viaPassata è la tempesta: odo augelli far festa, e la gallina, tornata in su la via.
S rasserenea ‘mbaccia Campitusci(o), s scombra la campagna e s rveda bbon ru rie la FntanellaEcco il sereno rompe lá da ponente, alla montagna: sgombrasi la campagna, e chiaro nella valle il fiume appare.

Versi sicuramente elementari quelli del nostro Anonimo, ma notare che la critica scrive del Leopardi : “…ha un giro di frase estremamente semplice…”.

  – Da ultimo non dimentichiamo (ed è storicamente noto) che il Leopardi non ha disdegnato di “rubacchiare”: per il Canto notturno di un pastore errante nell’Asia (del 1830) prese ispirazione dalla cronaca del “Vojage a Bukara”  del russo Mejendorf (del 1826). Coincidenza sempre a qualche anno di istanza tra causa ed effetto?

Ho riflettuto a lungo se divulgare la scoperta per far trionfare la verità a postumo riconoscimento della grandezza del nostro compaesano. Infine ho desistito dal tentare di sfondare il muro di scetticismo che mi sarei trovato davanti, per varie ragioni (che elenco).
Ad onor del vero va detto che sì, il Leopardi scopiazzò, ma dette anche ai versi dell’Anonimo una veste sontuosa, trasformando in poesia vera e compiuta i felici spunti.                                      
Saccenti e presuntuosi critici letterari non avrebbero mai sposato l’onda revisionista che confutava i fiumi di inchiostro spesi nell’ incensare il Marchigiano.                                                                        
Tutti i testi scolastici di Italiano da riscrivere. Troppo.
E poi i compaesani del Leopardi sarebbero sicuramente insorti e, se si fosse dovuti arrivare allo scontro aperto tra Tussiani e Recanatesi, questo ci avrebbe sicuramente visto soccombenti contro un avversario numericamente preponderante e meglio equipaggiato (perlomeno come calzature….).  
Il tutto senza poter contare con certezza sull’ incondizionato appoggio di uno dei nostri più aitanti concittadini: l’architetto Sergio convolato al di là del Tronto.

Note

*  I Vetera Analecta erano raccolte di composizioni scelte, di documenti, di testi e  notizie.                   
Il manoscritto originale è consultabile da tutti a casa mia.       

Quanto ho scritto ne “Il cognome della mazzocca” corrisponde assolutamente a verità, per lo meno tanto quanto è vero che Umberto Eco scrisse “Il nome della rosa” basandosi su un libro dell’abate Vallet che, a sua volta, era la riproduzione di uno scritto latino di un certo Mabillon, che riportava le memorie del monaco Adso da Melk…..

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Proviamo:

Modi di dire, Detti popolari, anzi tussiani, Proverbi …

nisciunë apìtë: nessuna pietà

vajjië facènnë lë cianguëlettë: vado facendo le cinghette: indice di grande debolezza fisica; non mi reggo in piedi e allora le gambe si piegano e vanno per fatti loro.

Si comë nu jattë sghëlënitë: magro, molto magro

Va cërchènnë feste y malë tembë (proverbio contadino: cerca feste e maltempo: occasioni per non lavorare)

Cristë a vattë y san Pietrë a rraccollë

Si proprië nu strascinë (Uomo ridotto “male”; Tirare in malo modo)

Parole strane:

Strascinë: attrezzo per trascinare cose, pesce